Baby Blues, di Lars E. Jacobson e Amardeep Kaleka (2008)

Il parto è per ogni donna l’evento più sconvolgente e intenso in assoluto, non solo perché comporta un inaudito dispendio di energie fisiche e psichiche, ma anche perché donare la vita ad un essere umanocambia profondamente l’intera esistenzae percezione del mondo, oltre che l’ordine di priorità e valori.
Proprio per questo, diventare madre non è solo un’esperienza gratificante e piena di gioia, ma nasconde anche delle insidie, legate a questa particolare condizione fisiologica e ormonale, nonchéemotivaerelazionale.
L’ansia procurata dalle responsabilità che impone la maternità, gli squilibri ormonali e lo stress accumulato possono portare amalinconia, crisi di pianto, umore instabile, insonnia ed irritabilità.
Si tratta del“baby blues”,termine coniato dal pediatra e psicanalistaDonald Winnicotin riferimento al disagio che colpisce fino all’80% delle mamme ed insorge ad una settimana dal parto, per risolversi in una ventina di giorni.
Nel venti per cento dei casi questo disturbo può sfociare nelladepressione post partoo, in quelli più gravi, in una vera e propriapsicosi, caratterizzata da ossessioni, manie, allucinazioni, perdita del senso della realtà e della propria identità, istinti omicidi e suicidi.

BABY BLUES – LA TRAMA

Due intrepidi registi americani,Lars E. Jacobson e Amardeep Kaleka, al loro esordio per un lungometraggio, hanno voluto affrontare questotema spinosoe molto attuale, troppo spesso sottovalutato, realizzando unhorror audace e cattivo, traendo spunto dai numerosi casi di cronaca, in particolare dalle vicende della texanaAndrea Yates, condannata per aver annegato i suoi cinque figli, ma giudicata non colpevole per infermità mentale.
La protagonista del film in questione, intitolato“Baby Blues”, non ha un nome, viene chiamata genericamente “mom”, come se il suo ruolo si riducesse solo a quello di genitrice.
D’altronde, a parteleggere la bibbiaseduta sotto il portico di casa, la sua occupazione sembra essere esclusivamente quella di accudire i propri bambini, in una grande fattoria circondata solo da campi di granoturco a perdita d’occhio.
A completare questoquadretto desolantesi aggiungono unmarito assente, sempre in viaggio per lavoro e poco attento, e la notizia di un’ex compagna di liceoscelta per leggere le previsioni meteo in tv, che alimenta la sua sete di riscatto sociale e la sua frustrazione nel veder sfiorire, giorno dopo giorno, la propria bellezza, tra le mura domestiche, in un’alienante routine quotidiana.
Tanto basta a farvacillare l’equilibrio della donnache comincia ad essere inquieta, ad avere orribili visioni, a cedere a pianti inspiegabili, a mostrare segni di fragilità e paranoia.

Tutto questo sotto lo sguardo preoccupato del primogenito,Jimmi,che proverà invano a mettere in guardia il padre, dissuadendolo dal partire nuovamente e parlandogli delle sue apprensioni circa le condizioni della madre, che “non sorride più“.
L’uomo minimizzerà la gravità della situazione, come spesso accade nella vita reale, ribattendo che“E’ normale, la mamma fa sempre così quando ha un nuovo bambino. E’ solo stanca, le passerà”.
Previsione ottimistica e quanto mai lontana dallacarneficinache si scatenerà solo poche ore più tardi, quando un giocattolo conteso a tavola, durante la cena, sarà la miccia che farà esplodere l’inevitabile tragedia.
La mamma, angelo del focolare, quella figura celestiale che nell’immaginario collettivo incarna i concetti dicalore famigliare, casa, sacrificio e abnegazione, non è una creatura indefettibile, il cui amore per i figli è naturale, istintivo e scontato, ma un essere umano soggetto a pulsioni, paure, angosce e turbe mentali.
La sola idea che possa diventare il piùtemibile dei villains, animato da una furia cieca ed insensata, sgomenta e fa rabbrividire, eppure lasindrome di Medeacolpisce, ogni anno, decine di neomamme.
Risucchiata nel buco nero di una monotonia fatta di giorni tutti uguali, la mom del film, come molte delle protagoniste di popolari casi di cronaca, vede nella sua progenie la principale causa del suo malessere, unpesante fardellodi cui disfarsi, sorretta da quella presunzione che fa credere che un figlio sia una proprietà privata, di cui fare quel che si vuole.

L’opera primadi Jacobson e Kaleka si regge tutta sulle mirabili atmosfere sinistre e livide, illuminate dalla fioca luce lunare e realizzate per merito di una fotografia bluastra e rarefatta, ma soprattutto sulle robuste spalle diColleen Porch, straordinariaincarnazione del Male, perfettamente in parte e vagamente somigliante ad un“Jack Torrance”in gonnella, in particolar modo quando vaga nei campi con lo sguardo perso nel vuoto, brandendo una mannaia e ripetendo come un’ossessiva litania:“Sciacquatevi le mani, è pronta la cena, lavatevi i denti…”.
Solo il figlio maggiore, dal visetto scaltro ed espressivo diRidge Canipe, tenterà, in un duello all’ultimo sangue, di sottrarsi alla feroce mattanza, combattendo la madre-caterpillar fino alla fine, per la salvezza prima dei fratelli, poi per quella propria, al prezzo di un epilogo che non gli riconoscerà l’eroismo dimostrato.
Il merito di questodurissimo horror indieè quello di aver abbattuto uno degliultimi tabùdel Cinema, senza falsi pudori e moralismi, con il solo intento di intrattenere, quasi fosse uno slasher come un altro, nonostante la sgradevolezza e delicatezza della tematica, gestita in maniera esemplare e con assoluta neutralità, lasciando quasi tutte le scene di infanticidio fuori campo e preferendo all’explotatione algoreuna costruzione scrupolosa dellasuspensee un ritmo serratissimo da cardiopalma.
Ancora inedito da noi, per via di una distribuzione che preferisce i rassicuranti incassi dei variboogeymane squali mutanti agliorrori reali, di cui temere sul serio, consiglio caldamente di recuperarlo a chi voglia restar stupito da un horror made in Usa ben lontano dalle solite produzioni americane e molto vicino alcrudo realismodel Cinema europeo e a chi non sia troppo sensibile all’argomentofiglicidioe dintorni.

BABY BLUES – TRAILER

Eliana Romano